Rivista di Sociologia "La Società...in rete" - Articolo: IL RUOLO SOCIALE DELLE DONNE IN AFGHANISTAN

 

 

Senza alcuna pretesa di esaurire un tema così vasto, quale è l’analisi del ruolo sociale femminile in un contesto dilaniato da anni di guerre civili, questa riflessione sociologica ha l’intento di contribuire al dibattito che vede prevalere le forze più aggressive e fondamentaliste a discapito di quelle più moderate. Questo non solo in Afghanistan ma in diverse parti del mondo. Le vittime dei fondamentalismi risultano essere principalmente le donne, adulte, giovani, bambine.

Una ragazza viene lapidata perché accusata di aver bruciato una copia del Corano in Afghanistan; negli Stati Uniti si spara contro le cliniche che praticano l’aborto. In Europa, si potrebbe ricordare, la notte di Capodanno del 2015 a Colonia e in altre città tedesche, in cui ci fu un attacco inaudito di violenza, anche sessuale, ai danni di diverse donne da parte di una massa incontrollabile di maschi di origine arabo-mussulmana e occidentali. Esempi di un andamento sociale e culturale che nonostante inneggia al progresso e alla tutela dei diritti umani delle fasce più fragili, ne sperimenta quotidianamente il fallimento. Una sorta di ritorno alle origini, ad un modello culturale che vede la sua sede nelle religioni, soprattutto quelle di origine monoteista. Da qui le etichette “fragilità”, “oggetto del piacere” associate al ruolo femminile sono divenute un fatto sociale. Tornando al caso specifico, nell’Islam la sessualità non occupa solo la vita terrena ma anche l’aldilà. La houri (Vergine del paradiso) richiama alla nozione di paradiso fondata sul piacere senza limiti. Ma proprio i simboli della laicità sono entrati nel mirino Jihadista.  Pertanto, ogni donna è etichettata come figlia di Eva ed è l’origine del peccato, la tentatrice che seduce e porta alla perdizione.

Le guerre civili degli ultimi anni sono caratterizzate da integralismi religiosi e dalla nascita di ideologie nazionalistiche distorte che hanno come obiettivo, non la conquista di un territorio ma la distruzione culturale sistematica e fisica di una parte della popolazione. In un quadro così violento, la donna, simbolo della famiglia e della comunità, diventa il bersaglio privilegiato. Da un punto di vista sociologico, le violenze, la schiavizzazione e la tratta di donne “nemiche” diventa un simbolo caratterizzato da forti implicazioni sociali, poiché comporta al nemico di guerra l’oltraggio più insopportabile: il non aver saputo difendere le proprie donne da un attacco esterno creando oltretutto il danno sociale per cui coloro che hanno subito violenze vengono il più delle volte allontanate dalla propria comunità di appartenenza privandole di ogni diritto e del loro ruolo di moglie, madre o figlia. Una condizione evidente in questi Paesi in cui è già radicata una profonda discriminazione di genere e la discriminazione è violenza perché toglie alla donna la possibilità di poter esercitare un controllo sul proprio benessere sia fisico che psicologico e socio-relazionale.

Il conflitto in Afghanistan ha una valenza particolare in quanto si tratta di un Paese di forte e prevaricatrice cultura maschile caratterizzata da una violenza verso il genere femminile, che non ha mai di fatto goduto di nessun diritto. Da questo punto di vista, risulta difficile trovare dati certi sull’Afghanistan, sia a causa del conflitto di lunga durata che ha “impantanato” il paese, sia per la quasi totale impossibilità da parte delle donne Afghane di denunciare le violenze sessuali con un atto di coraggio che probabilmente costerebbe loro la vita.

L’Afghanistan è stato teatro di una lunga guerra civile che ha portato il paese al collasso socio-economico, fino all’ascesa dei Talibani (letteralmente studenti di religione) avvenuta nel 1994. Questi, accolti inizialmente con favore, incarnavano il ritorno ad una situazione di stabilità e di contrapposizione alle violenze. Ciò, in realtà, determinò l’imposizione della Sharia, una rigida condotta di vita sociale, per la protezione della virtù e la soppressione del vizio, che ha portato molte donne afghane a rimanere chiuse nelle loro case, al divieto di ogni forma d’istruzione, alla lapidazione e alla morte in caso di disobbedienza ai canoni della Sharia. Situazione questa di una pregnante e gelida attualità. Per comprendere la situazione politica e sociale in cui versa l’Afghanistan odierno bisogna capire chi sono i Talibani, cioè gli “studenti di religione” che, a distanza di venti anni dalla loro comparsa sulla scena mondiale, ancora oggi controllano e influenzano le vite degli afghani, in maniera particolare quelle delle donne. Inizialmente visti come una sorta di liberatori sotto la guida del loro leader Mullah Omar, ben presto si palesarono come forti conservatori e attuatori di restrizioni riguardanti soprattutto il mondo femminile. Tra i tanti divieti:

-          Divieto di istruzione di ogni ordine e grado

-          Divieto di ricevere cure mediche da medici di sesso maschile

-          Divieto di farsi fotografare

-          Divieto di portare tacchi alti, vestiti colorati

Le Nazioni Unite hanno stimato che ad oggi solo il 3% delle bambine afghane ha ricevuto un’istruzione primaria, su 94 scuole 29 sono state chiuse dai Talibani. Alcune donne nonostante tutto hanno continuato a insegnare o ad andare a scuola “in segreto”. Per non parlare delle donne che a causa di mancata assistenza medica sono decedute poichè potevano farsi visitare solo da altre donne.

Ciò sta a testimoniare che purtroppo la situazione, nonostante lo sforzo della Comunità Internazionale e del tentativo di esportare un modello di democrazia di tipo occidentale, non è riuscita a cambiare, non si è riusviti ad eliminare le violenze, né ad arginare la violazione dei diritti umani nei confronti di civili. Nonostante l’oppressione e le violenze a cui sono costrette la maggior parte delle donne afghane, molte di loro, per lo più giovani, combattono ogni giorno una battaglia contro le violazioni, i soprusi e le brutalità alle quali sono sottoposte quotidianamente. Molte di loro sono sconosciute e nulla si sa né delle loro vite né del loro destino. Altre invece, sono salite alla ribalta della cronaca per gesti e per dimostrazioni che passeranno alla storia. Ma spesso i libri sull’argomento trattano di un caso specifico, che non dà una panoramica sul fenomeno e lo stesso discorso vale per gli articoli ed i reportage giornalistici. Sicuramente da una parte c’è grande difficoltà di reperimento di dati certi, poiché, per la natura stessa del fenomeno, le donne stesse rifiutano o non possono confessare ciò che hanno subito. Dall’altra, però, non va dimenticato che sembra esserci ancora scarso interesse sull’argomento. Il dialogo tra la comunità internazionale e la comprensione sociale e culturale delle popolazioni locali, unitamente ad un lavoro in sinergia tra operatori di pace e popolazione civile, è una chiave di lettura importante per cercare, con mezzi pacifici, di dare voce a tutte quelle donne, troppe purtroppo, che ancora oggi, a causa delle violenze subite, rimangono invisibili agli occhi della maggioranza.