Il ponte di Genova: rischio e “fiducia sociale”. La comunicazione istituzionale in tempo di catastrofe
Condivido e riporto di seguito l'articolo del collega sociologo Sergio Mantile, avente ad oggetto il "dramma sociale e umano" che ha colpito il nostro Paese con il crollo del ponte di Genova. La condivisione sul ruolo centrale della "Comunicazione" all'interno della "Sociologia dei disastri" e come mezzo e strumento alla base della vita sociale di ciscun individuo.
Articolo pubblicato su “ANS Campania News”. Per visualizzare
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di SERGIO MANTILE
Il 28 agosto scorso, i ministri Di Maio e Salvini sono stati
applauditi al loro arrivo ai funerali delle vittime di Genova. È una
cosa rara ed insolita il tributo di consenso ad alte cariche dello
Stato, in un ambito carico di dolore e di rabbia.
Era accaduto, per esempio, ai funerali di vittime per mafia, in
favore di qualche esponente istituzionale ritenuto particolarmente
valido o super partes, come Presidenti della Repubblica o magistrati.
All’opposto, si erano avute in passato contestazioni durissime, sino al
limite dello scontro fisico, nei riguardi di Ministri o alti esponenti
delle Forze dell’Ordine nelle stesse tristi occasioni.
Allo sguardo che tenda ad essere scientificamente distaccato (e non
politicamente o emotivamente coinvolto), questo vistoso segno di
approvazione al governo pone un quesito sociologico sul senso di
quell’applauso.
Relativamente agli ultimi giorni, risalta la discontinuità della
comunicazione governativa, rispetto a situazioni analoghe, di molti
governi precedenti.
Generalmente, i governi passati, sia di centro-destra che di
centro-sinistra, all’indomani di un evento catastrofico, seguivano un
copione comunicativo più o meno centrato su questa sequenza:
a) manifestazione di dolore e vicinanza alle famiglie delle vittime;
b) forte disapprovazione delle eventuali accuse dell’opposizione, definite strumentali e immorali (atti di sciacallaggio politico);
c) forti dichiarazioni sulla certezza che tutti i responsabili
sarebbero stati ricercati fino alla loro individuazione e assicurazione
alla Giustizia;
d) ferma “fiducia” nella Magistratura, che va lasciata nella
più ampia serenità di lavoro, visto che solo essa è competente ad
individuare omissioni, crimini e responsabilità; assicurazione che mai
più avranno a ripetersi, dopo quello, altri eventi luttuosi a danno
della collettività.
Il senso comune, con lo stratificarsi dell’esperienza di eventi
disastrosi, nel tempo potrebbe aver finito per determinare
l’attribuzione, in misura più o meno ampia, di un significato
particolare a tale copione.
E cioè:
-di prammatica formale al punto a) – partecipazione al dolore dei parenti delle vittime – considerandolo perciò vuoto e inconsistente;
-di interesse egoistico di parte al punto b) – paventato sciacallaggio politico;
-di rituale genericità della rassicurazione al punto c) – la certezza dell’individuazione di colpe e responsabilità – cui hanno fatto riscontro rare conferme per il periodo storico;
-di delega totale alla Magistratura come propria de-responsabilizzazione, al punto d), ossia, come evasione dal sostegno attivo e partecipato dei diversi apparati dello Stato, ed in particolare dei suoi vertici istituzionali, al lavoro della Magistratura. Ovvero: come riduzione della questione ad un affare di cause, tribunali e buoni avvocati (quelli capaci di sovvertire le evidenze più limpide) e perciò di promessa sempre più vuota ed irritante, per ogni volta che viene ripetuta.
-di prammatica formale al punto a) – partecipazione al dolore dei parenti delle vittime – considerandolo perciò vuoto e inconsistente;
-di interesse egoistico di parte al punto b) – paventato sciacallaggio politico;
-di rituale genericità della rassicurazione al punto c) – la certezza dell’individuazione di colpe e responsabilità – cui hanno fatto riscontro rare conferme per il periodo storico;
-di delega totale alla Magistratura come propria de-responsabilizzazione, al punto d), ossia, come evasione dal sostegno attivo e partecipato dei diversi apparati dello Stato, ed in particolare dei suoi vertici istituzionali, al lavoro della Magistratura. Ovvero: come riduzione della questione ad un affare di cause, tribunali e buoni avvocati (quelli capaci di sovvertire le evidenze più limpide) e perciò di promessa sempre più vuota ed irritante, per ogni volta che viene ripetuta.
Il copione comunicativo dell’attuale governo, a seguito della caduta
del ponte a Genova, è stato completamente diverso nelle affermazioni e/o
nella loro sequenza.
Il governo, attraverso i suoi esponenti più autorevoli, ha cominciato
con il puntare subito il dito contro la concessionaria delle Autostrade
Italiane (Gruppo Atlantia S.p.a. controllata dalla famiglia Benetton),
indicandola come responsabile certa, prima ancora di qualsiasi indagine
della Magistratura, e al di là della ferrea certezza dei termini legali
della concessione e delle eventuali penali da pagare in caso di
rescissione.
Quest’atto comunicativo, se ha potuto contrariare molti osservatori
distaccati, è stato di un impatto straordinario sulla gran parte della
popolazione, che l’ha interpretato, molto spesso, come una scelta di
campo a favore dei cittadini. Poi, c’è stata anche l’affermazione della
vicinanza alle famiglie delle vittime e al lavoro duro e rischioso di
tanti operatori coinvolti nelle operazioni di salvataggio e rimozione
dei detriti. Ma, in questo caso, tale dichiarazione è stata spinta nella
sostanzialità, nella non ritualità, dall’apparente “scelta di campo” di
quella precedente.
Sono seguiti ancora, ad opera di esponenti governativi e/o della
stampa, le informazioni circa i lauti profitti realizzati dalla società
privata, che ricavava milioni e milioni di euro dalla gestione di un
bene pubblico semi-privatizzato, probabilmente senza spendere il
necessario per la sicurezza.
Il fatto che la concessione fosse stata data da Prodi e D’Alema
prima, confermata poi dallo stesso Salvini (Lega) e dal PdL e dopo
ancora da Renzi, che, addirittura, i termini del contratto fossero stati
secretati dal governo, quasi potessero minare la sicurezza della
nazione, non ha fatto altro che rinforzare la percezione di una
progressiva esautorazione della democrazia e dello Stato, da parte di
gruppi particolaristici, realizzatasi nel corso degli ultimi decenni.
Pertanto, è, dunque, possibile trarre qualche conclusione provvisoria
di quanto fin troppo sinteticamente e parzialmente esposto:
A) La “fiducia” dei cittadini nei propri governanti, che
generalmente viene messa duramente alla prova dagli eventi catastrofici,
sembra essere allo stato fortemente compromessa dall’accumulo esperito
dei numerosi disastri di natura umana (e particolarmente di tipo
politico-istituzionale, quanto ad inadeguatezza di cura e controlli)
come le diverse “Terre dei fuochi”, i crolli di scuole e di ponti, i
disastri ferroviari, ecc. e di tipo naturale-umana, come i terremoti, a
partire – per l’epoca recente – almeno da quello del 1980 in Irpinia;
B) Con l’apparente schierarsi “dalla parte dei cittadini” del
governo nel caso del ponte di Genova, si è generata una frattura –
almeno comunicativa, momentanea ed apparente – nella continuità di senso privatistico della gestione dei beni pubblici, operata dai governi di centro-destra e centro-sinistra precedenti;
C) Il controllo da parte delle istituzioni viene richiesto in
maniera sempre più chiara dall’opinione pubblica, per le opere (strade,
viadotti, scuole, ecc.) che possono generare catastrofi, se non ne venga
adeguatamente curata la manutenzione, data, all’opposto, la manifesta
ed interessata insufficienza del “controllo delegato” al privato, che
persegue l’interesse del massimo profitto;
D) L’aspettativa fortissima di controllo statuale delle opere
pubbliche che potrebbero produrre disastri, rivolta all’attuale governo,
rischia di generare una delusione altrettanto grande, se non sia
soddisfatta in una qualche misura significativa.
Deve essere chiaro che quello che qui interessa non è l’efficacia
comunicativa del governo, né l’eventuale bontà o inconsistenza della
proposta e nemmeno la presunta buona o cattiva fede dei comunicatori
istituzionali, ma il senso di una risposta collettiva ad una siffatta
comunicazione.
Abbiamo sottolineato l’aspetto della “fiducia”, perché la mole di
interessi ideologici, economici e politici che si muove storicamente
dietro i disastri, in particolar modo in Italia, è enorme, e parte
dalla gestione della paura dei cittadini.
Non a caso, tanto il significato di “economia dell’emergenza”, coniato dall’economista Ada Becchi Collidà,
(per spiegare quello che seguì il terremoto dell’Irpinia nel 1980 sul
piano legislativo, finanziario, urbanistico e criminale), che quello di “Shock doctrine” (inventato Naomi Klein
per chiarire gli effetti perseguiti ed attesi delle ricorrenti crisi
economiche recenti), sono basati sulla gestione istituzionale della
paura collettiva. Paura alla quale si offrono facilmente soluzioni di
grande impatto emotivo, sia apparentemente molto concrete, sia
apparentemente molto “affettive”.
Nel primo caso, per fare solo un esempio, «ricostruzione» è la parola
magica, perché fa immaginare di nuovo le case e gli edifici dove ora
sono macerie, che però può significare anche una quantità ingente di
finanziamenti e di guadagno per costruttori “amici” e/o criminali,
reiterata noncuranza per valutazioni scientifiche sulle modalità della
ricostruzione, continuità nelle tipologie organizzative e nei sistemi di
controllo, e persino nelle figure professionali ed istituzionali, che
hanno già ampiamente manifestato il loro fallimento, ecc.
Nel secondo caso, per fare solo un altro esempio, la gestione
psicologico-antropologica della paura e del dolore può significare un
mare di servizi televisivi sulla voglia di non mollare dei cittadini
evacuati da qualche luogo, sulle attività economiche che puntano a
ripartire, sulle tradizioni culturali da mantenere vive, ecc., lasciando
del tutto scoperta l’analisi della concausa di elementi
politico-istituzionali, economico-corruttivi, criminali, comunicativi,
ecc. che ha effettivamente determinato il disastro nelle sue dimensioni.
L’applauso al governo ai funerali delle vittime del crollo è il
sintomo della consapevolezza che sul dolore e sulla paura si sono
costruite delle politiche nei decenni, insieme all’aspettativa
lungamente frustrata che non sia più così.