Impotenti. E’ lo stato in cui cittadini e Stato vivono il
fenomeno delle baby gang che nelle ultime settimane sta facendo
registrare impennate preoccupanti. Da Nord a Sud, senza alcuna
differenza. Adolescenti che sfogano le personali frustrazioni in branco,
terrorizzando malcapitati passanti ritenuti “deboli” e oggetto di
inaudita violenza. Nella complessità del fenomeno posto sotto i
riflettori per gli ultimi fatti di cronaca, il sociologo Antonio
Sposito, presidente dell’Associazione Nazionale Sociologi – Dipartimento
Campania, spiega i motivi di innesco di una piaga che sta lacerando il
Paese determinando paure ed evidenziando le contraddizioni della nostra
società.
Come si spiega il fenomeno delle baby gang dal punto di vista sociologico?
La genesi strutturale delle gang giovanili è correlata alla
storia delle città, dalla Roma antica, alla Chicago
proibizionista, giungendo fino alla New York multiculturale.
Se sociologicamente si possono rintracciare per grandi linee dei tratti comuni alle numerose gang giovanili
che dimorano in particolare nei quartieri periferici, emarginati,
marginalizzati e segregati delle città, le loro caratteristiche variano
secondo le epoche storiche e i contesti sociali di riferimento. È,
pertanto, improbabile schematizzare un modello di gang giovanile impiegabile in tutti i casi osservati.
Se però è rintracciabile una possibile costante, essa va
individuata nelle composite forme della “disuguaglianza sociale”
relativa allo status socio-economico di appartenenza e all’etnia,
interpretabile come subalternità materiale e simbolica che origina i
cosiddetti “invisibili”, ossia, giovani senza alcuna prospettiva di
futuro, i quali, di fatto, non partecipano al sistema sociale e alle
norme etiche condivise dalla maggioranza della popolazione.
Sono giovani esistenti nelle zone più oscure e latenti della
società che non accedono neanche al minimo previsto dalla “soglia di
integrazione”, i quali associandosi in gang conformate come “subculture”, spettacolarizzano se stessi attraverso atti di violenza.
Laddove, in presenza di “variabili strutturali” (povertà,
assenza di lavoro) falliscono le “variabili di processo” (rappresentate
dai cosiddetti “corpi intermedi” quali famiglia, scuola, partiti
politici, associazioni varie ed organizzazioni religiose), emerge la
funzione sociale delle gang giovanili che consiste nell’assicurare protezione ai suoi membri e un senso di appartenenza,
Le dinamiche che caratterizzano il comportamento gruppale definito da “branco” sono attribuibili al fenomeno sociale definito in group (gruppo del “noi”) out group (gruppo degli “altri”). Nei casi oggetti di cronaca attributi alle baby gang, la società fungerebbe da “altro generalizzato” e le singole vittime individuate come membri “nemici”.
In riferimento alle norme comportamentali e ai fattori socioculturali dominanti, i membri delle baby gang – spesso affetti da deficit Super-egoico civico
– “compensano” quel “complesso di inferiorità” strutturale frustrante,
causato dalla loro condizione di marginalizzazione ed emarginazione
producente uno stato di precarietà e incertezza esistenziale, attraverso
l’espressione di rabbia e aggressività.
Le differenze individuali di personalità non spiegano
l’uniformità del comportamento violento collettivo agito in gruppo. In
questi giovani “devianti” non scatta l’identificazione con la vittima,
il gruppo diviene, quindi, “sociopatico” nel suo insieme. Esso non ha
uno scopo razionale preciso, è un gruppo emotivo che nel disperato
tentativo di provare una sensazione di “potenza” e “superiorità”,
attraverso la dinamica del “capro espiatorio”, colpisce le persone (in
genere coetanei) ritenute “deboli”.
Appartenere a una specifica baby gang innalza
l’immagine di se stessi come membri di un insieme che fornisce un
“senso” alla realtà, procurando, inoltre, una “identità sociale”
superiore alla percezione di sé come singolo individuo critico.
Fenomeno napoletano ma di respiro nazionale. Dove più facilmente si sviluppa? Quali sono le circostanze che lo determinano?
Per i motivi sopra addotti, le baby gang si
sviluppano più facilmente laddove il tessuto sociale italiano, in cui
rientra anche quello napoletano, è disgregato, dove vi è la presenza di
una maggiore anomia, ossia, di una condizione in cui i rapporti
e le relazioni sociali, le norme, i valori etico-morali e culturali
sono sempre più flebili, assenti o contraddittori.
Dal punto di vista fenomenologico, anche in Italia – che nel
frattempo è diventata una società multiculturale, multietnica e
mediamente più povera a causa della crisi economica – le gang giovanili stanno emergendo e vanno moltiplicandosi.
Le fasce di popolazione più svantaggiate che risentono del
disagio socio-economico e socio-culturale rifiutano di adattarsi ai
valori e alle norme dominanti. Ne consegue una “tensione strutturale”
dovuta alla disorganizzazione sociale, alla dequalificazione urbana, ai
deficit educativi, alla crisi della famiglia, che in Italia, anche se in
via di ridefinizione funzionale, è stata, e in parte lo è ancora, una
istituzione nodale. In “assenza” della famiglia per molti giovani la
strada è divenuta ormai la casa e l’associarsi in “gang di pari” surroga
il nucleo familiare.
A Napoli vi è anche la particolarità della Camorra, la quale
attivando un “processo di socializzazione differenziale” incoraggia i
comportamenti criminali devianti dei giovani, anche se non tutte le baby gang sono riconducibili al fenomeno camorristico.
Oggi esiste una forte attenzione mediatica, ma già
in passato fenomeni simili (i muschilli) si verificavano. Quali sono le
differenze?
Su tale questione vi è confusione interpretativa.
I muschilli (moscerini inafferrabili da sacrificare, pusher in calzoncini corti) sono i baby-corrieri
della droga. Minorenni che coadiuvano gli spacciatori non perseguibili
penalmente come gli adulti, i quali li utilizzano per non correre rischi
in prima persona. Per sottolineare l’importanza dell’argo-mento è
necessario ricordare che trentatré anni or sono, il 22 settembre 1985,
Giancarlo Siani (gior-nalista napoletano ucciso dalla camorra il giorno
dopo) pubblicò il suo ultimo articolo che si occupava proprio dei muschilli. Il fenomeno è attualmente in diminuzione.
Gli odierni clan camorristici sempre più frammentati si
combattano tra loro per controllare finanche un’unica strada. In questa
frantumazione del controllo del territorio, i giovani che vogliono
intraprendere una carriera criminale, compensano la mancanza di
esperienza con una ferocia spietata che va spettacolarizzata, si armano,
diventano gruppo, assumendo così una “identità sociale” che gli
consente di conseguire riconoscimento collettivo.
Si parla di esempi negativi, penso
a Gomorra, ma davvero realtà artistiche possono incidere sui
comportamenti? E se sì, in che modo?
Solo in parte è così. Ne spiego il perché.
Gli studi di “Sociologia delle comunicazioni di massa”
evidenziano che non vi è una correlazione diretta tra l’esposizione a
programmi come “Gomorra” e il pericolo di perpetrare atti di violenza o
di diventare camorristi.
Tali programmi rafforzano più che modificare atteggiamenti e
comportamenti devianti. Ovviamente è possibile che si inneschi il
fenomeno dell’”imitazione”, attivando una sorta di “conformismo
differenziale” che determina il senso di appartenenza ad una
“subcultura” criminale. In realtà la capacità di agire i processi di
selezione e filtro delle informazioni, varia a seconda dei contesti
familiari, socio-relazionali, socio-culturali e del sistema dei valori.
Il problema degli effetti causati dall’esposizione ad alcuni
programmi è complesso. Di fatto, non si misurano soltanto gli “effetti a
breve termine” ma anche quelli a “lungo termine” o cumulativi, dati
dalla cosiddetta “tematizzazione” degli argomenti, i quali nella loro
serialità vengono ripetuti, ruminati e rimasticati di continuo,
producendo conseguenze non soltanto sugli atteggiamenti e sui
comportamenti di giovani individui ma anche sulle conoscenze, sui
modelli sociali da adottare, sulle rappresentazioni del mondo.
È l’intera struttura sociale con i suoi subsistemi
che viene investita dalle “comunicazioni di massa”, le quali divengono
dei veri e propri “costruttori” delle realtà sociale, nonché “agenti
socializzatori” che definiscono e ridefiniscono la “normalità”.
L’esistenza delle “comunicazioni di massa” rappresenta la specificità
storica che caratterizza la società postmoderna, in cui si sono
affermati anche i new media – tra cui Internet e i Social – attraverso i quali i baby criminali esibiscono pose da duri, diffondendo, spettacolarizzando e mediatizzando il proprio Sé per ottenere riconoscimento sociale.
Quanto, invece, può incidere l’esempio positivo di famiglia, scuola, chiesa?
Come già accennato in precedenza, la famiglia, la scuola, la
Chiesa, in quanto “agenti socializzatori” e “corpi intermedi” della
società, rientrano nelle “variabili di processo”, la cui funzione
educativa ed autoritativa è mediare tra sistema sociale e singoli
individui, facilitando l’adattamento di questi ultimi attraverso il
trasferimento di valori condivisi di convivenza civile.
Di conseguenza, se nella società postmoderna altamente
tecnologizzata – che ha assistito alla fine delle “grandi narrazioni”
ideologiche del passato, le quali fornivano un senso collettivo
all’esistenza e un’”etica sociale”, in cui è subentrata la
“presentificazione del tempo” (un tempo senza più vettore che ha
smarrito la direzione a scapito di un “eterno presente”), dove ciò che
conta è consumare il più velocemente possibile merci ed esseri umani, di
possedere a scapito di tutto e tutti – la funzione educativa della
famiglia, della scuola e della Chiesa si indebolisce, esse smettono di
essere punti di riferimento comunitari perdendo così credibilità e
consenso come istituzioni. Affievolendo la loro rappresentatività
sociale consegnano i singoli individui – soprattutto giovani – al
pericolo dell’“etica-fai-da-te”.
Cosa si può fare dal punto di vista sociologico per combattere il fenomeno?
La sola repressione non è sufficiente. È necessario rinnovare il tessuto sociale innescando un processo di neo-civilizzazione,
riproducendo fiducia in un futuro migliore, disattivando l’angoscia del
presente, recuperando il meglio del passato, delle tradizioni.
In un momento storico in cui la “globalizzazione” economica
ha accentuato l’asservimento della politica al “capitalismo finanziario”
di cui è divenuta “ancilla”, al fine di ridurre le diseguaglianze,
favorire l’integrazione sociale dei membri che abitano le “periferie
socio-esistenziali” implementandone il livello culturale, una delle
possibili soluzioni al problema delle baby gang è ridistribuire in maniera più equa il “reddito nazionale”.
Pertanto, è sempre più urgente e necessario che lo Stato
italiano, per continuare a garantire un livello di vita accettabile ai
propri cittadini, mitigando gli effetti devastanti causati dalla
“finanziarizzazione” della società avvenuta grazie al neo-liberismo che
sta cancellando il welfare state, recuperi ulteriori risorse
economiche pubbliche, ottimizzando gli investimenti erogati a favore
delle famiglie, della scuola, delle associazioni del “terzo settore”
impegnate nel sociale.
Intervista di “Vesuvio Life” al Presidente ANS Campania, clicca
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